X - L'ULTIMA THULE
L'evidenza della morte ci è continuamente dintorno, ma preferiamo ignorarla, per non essere obbligati ad ammettere quanto sia precaria la nostra condizione. I pochi dati che ci forniscono i sensi - ancorchè sublimati da strumenti, esperienza, tradizione - ci permettono di comporre appena una immagine enigmatica della realtà: solo qualche filo della fitta trama che soggiace, invisibile. Tuttavia l'arbitrario disegno che ricostruiamo sull'incerta base del tangibile, basta per concepire quelle commoventi Fedi che finiscono per essere l'unico nostro conforto. D'altronde il più del nostro tempo trascorre nel procurarci quanto serve per le nostre immediate necessità e in questa incoscienza possiamo anche fingerci felici. Ma allorchè questo microclima è sconvolto da un'emozione profonda, quale quella che suscita in noi il decesso di una persona amata, ci si impone la insopportabile nozione che tutti dobbiamo morire, non solo, ma che la vera morte non è quella che viene a suo tempo, cioè in un'occasione che, pur temuta, giace in un futuro distante, esteticamente composta, e per la quale i più nobili si possono preparare vivendo da giusti, ma che piuttosto si muore di continuo, nella permanente mutazione dell'esistenza in cui non siamo che disegni di spuma - incessantemente tracciati e disfatti dal turgore delle onde.
Di questa natura erano i miei pensieri mentre, in un piovigginoso mattino di primavera, assistevo alla esumazione di un nostro caro parente, per poi depositarne i resti nella nicchia assegnataci dall'Amministrazione del cimitero. Nella terra umida non restava traccia di quanto aveva avvolto il defunto nel momento di seppellirlo - abiti, sudario, feretro. Via via che il manovale scavava, apparivano le nude ossa, che egli tirava su con un lungo gancio di ferro e gettava in un telo d'olona steso sull'erba della tomba accanto, madida di piovasco. Ogni frammento affiorava a diversa profondità dagli altri, quasi a sottolineare che fra essi non esisteva più alcun vincolo, dacchè si era spenta quella labile forma che aveva gioito e sofferto - con noi, come noi - durante un tempo, ahimè, troppo fugace. Ogni tanto il manovale sostava per asciugarsi il sudore e riprendere fiato. Pioveva appena, un'acquerugiola nebbiosa che sfaceva le zolle. Quà e là altri sepolcri erano esumati. Cedevano alla vanga i patetici agghindamenti d'erbe e di ghiaia; anni di laboriosi riti domenicali non avevano prevalso contro la fuga del tempo. Una donna lavava ad un filo d'acqua un mucchietto d'ossa fangose appena riscattate dalle tenebre; poi, dopo averle asciugate, le ripose con cura in una valigetta di fibra. Altri già si avviavano verso i colombari o l'uscita, portando il pietoso carico. La natura dei resti appena esumati, ormai privi della parte più marcescibile, sembrava giustificare la speranza nella loro perdurabilità.
Con l'aiuto del manovale disposi le ossa in un'urna di legno, che avevo comprato per pochi soldi in una delle botteghe di marmoristi vicine al cimitero. Poi scendemmo nel labirintico colombario che occupa gran parte del sottosuolo del camposanto, e collocammo l'urna nella nicchia, che sigillammo con la lapide ancora ignuda. Al di là di quelle pareti coperte di marmi, appena rischiarate dalla luce crepuscolare che si filtra dai cortili squallidi, al di là delle decorazioni floreali e degli ottoni scrupolosamente lucidati, s'intuisce l'assenza del divenire (tenebre infinite e splendore di luci simultaneamente), quasi ci trovassimo ai confini del nostro universo. Svaniti la fisionomia ed il sesso, illusori attributi dell'esistenza, abbandonati i ricordi e le sensazioni nel tempo ormai trascorso che nulla può più alterare, l'inconsapevole essenza che amammo si nutre d'eternità, ossia di un modo che ci è ignoto, ma di cui forse le vicende umane sono il volto imperituro.
Buenos Aires, 1986