Avrò avuto dieci anni
quando fui testimone di un portento
ero in vacanze dal Padrino
(sacerdote e maestro)
in una città antica che s'adagia
sulla sponda di un Tevere
d'acque verdastre
rondini il cielo
Scesi in cantina con la Dinda
eterna come chiunque;
scintillava la brocca
alla fiamma del cero che reggevo
tremando
il vino della Messa si versava
dalla botte, lo zipolo si ruppe
il vino sacro traboccava al suolo
la Dinda eterna (come chiunque
ma con più evidenza)
invocava la Vergine, piangendo;
ottenuta la grazia
lacrime e rughe
sorrise, eterna
Pioveva nella nebbia, aghi di ghiaccio
forieri dell'inverno
sulle strade deserte;
Don Giuseppe
da tempo in casa per gli acciacchi
s'apprestava al Rosario
su in cucina
smisurata cucina di campagna
piena d'ombre e fruscii
moveva il passo torpido
svogliato
verso la Gloria.
* IL MIRACOLO: scritta in ricordo di Monsignor Giuseppe G.; direttore di un Convitto per studenti; probabilmente avviato alla carriera ecclesiastica dal Canonico Ricci, parente degli avi dei Maranca; mio padrino di battesimo, a lui devo il mio terzo nome (Aldo, Marco, Giuseppe); deceduto dopo la fine della II Guerra mondiale.
* Tevere: il fiume, non ancora flavus, fiancheggia Città di Castello, cittadina umbra dove abitava Don Giuseppe.
* Dinda: la perpetua di Don Giuseppe.