VII - CESARE
Caro Cesare,
Se mi domandassero a scoppio il nome del compagno di scuola che ebbi più caro, risponderei "l'Ignesti", chiarendo subito che mi riferisco a Cesare, e non a Federico che, anzichè giocare in porta (come te) era attaccante. Allo stesso modo, se la domanda si riferisse ad un insegnante, risponderei "il maestro Gattone", che era il soprannome del mio maestro di scuola elementare. Ma, se considerassi la domanda con qualche indugio, certo risponderei "il Preside Rinaldi", perchè la sua volontà precisa e autoritaria, che penetrava fino nei più reconditi angoli del nostro Liceo Ginnasio e mi sembrava tanto opprimente, in definitiva mi fece molto bene, e gliene sono riconoscente.
Ora ti starai domandando com'è che dopo tanti anni ti scrivo e per l'appunto prendo lo spunto dal nostro caro Preside, di cui, fra l'altro, non ho saputo più nulla, e che m'immagino trascorso a miglior vita da tempo. Domandati pure il perchè, e datti la risposta che ti sembri più azzeccata, ma non prima di esserti letto tutta questa lettera. Non posso proprio ricordarmi di quando ci conoscemmo: forse fu nei primi giorni di Ginnasio, ossia verso la fine del 1939. Ma ricordo con dolorosa precisione il nostro ultimo incontro a Firenze, due anni fa, ai funerali di tuo cognato Luigi Sellerio, che morì appunto durante il mio ultimo viaggio in Italia, di un terribile male. In chiesa, tra tanta gente, ricordo che c'erano, oltre te e tua sorella, molti amici di allora, fra i quali Vittorio Sellerio, Baby Danti, il Padre Filippo da Tavola -che officiò la messa- e mancarono Alb (perchè aveva l'influenza) e Umbe, che emigrò a Torino tanti anni orsono ed è diventato un pezzo grosso. Ti assicuro che rivedervi tutti insieme e di colpo, dopo più di trent'anni in cui avevo saputo poco di voi, fu un'esperienza tutt'altro che volgare. Fu come osservare dal di fuori quale sarebbe stata la mia vita se fossi restato come voi a Firenze, invece di lasciarla per il Sudamerica; mi sembrò vedermi fra voi, giorno giorno, forse lavorando come te alle Ferrovie; mi sembrò che tutta questa mia vita parlata in Spagnolo e Portoghese altro non fosse che un sogno, ora quieto ora d'incubi, sognato nella mia casa di sempre, in Via del Romito, che invece non esiste più. Aiutava il senso d'irrealtà che sperimentavo, il fatto che tutti voi, addoloratissimi come è logico, non mi prestaste troppa attenzione. Alla fine della cerimonia, dopo avervi stretto la mano, riacquisita la consapevolezza della mia vera realtà, mi ritirai discretamente con mia moglie per non distogliervi con la mia presenza, in definitiva estranea, dal vivere quel momento così intenso, che solo i più intimi potevano compartire.
(Questa lettera, probabilmente scritta nel 1982, restò inconclusa e non fu spedita)