IX - APPENA ESTATE
(*) La pianta immaginata dal Poeta (che sono poi io) è timida come la Mammola, ma spietata come la Drosera; qualsiasi veleno, anche solo una puntura d'ape, la inaridisce.
Una ingenua miosopis violacea
- o come si chiami -
appena sbocciata nel fradicio del bosco
imprigiona nelle viscere
un'ape principiante.
Laida e discinta, Primavera
sghignazza, anzi sogghigna - odiosa -
e i suoi cachinni
- come suggerisce la parola -
profumano di letame di trifoglio.
Le fan grillanda
le altre stagioni.
Agita Estate furiosa, ma impotente,
la chioma fulva
nel vano tentativo
di porre a salvo le sue creature.
Autunno dalle tempie brizzolate
si limita a osservare tanto scempio
con le pupille ironiche.
Giù per le gote risucchiate,
dalle candide ciglia dirupano le gelide
lacrime dell'Inverno.
Il Triangolo con la barba
solleva il dito orlato di nero,
impone silenzio a tutta la comitiva.
Solo il ronzio dell'esapodo
- ancora ignaro -
dall'ombra livida risponde
al richiamo stagionale
- breve singulto,
trascurabile tragedia,
appena un istante (se così può chiamarsi)
dell'eternità.
"Lasciate che vivano", sentenzia l'Altissimo.
"Vivere", aggiunge - parafrasando il proprio detto -
"sarà per loro il massimo imparare."
Questa poesia è nata al ricordarmi di un fatterello capitatomi a Buenos Aires qualche anno fa, la vigilia di Natale. Come si sa, l'estate di queste latitudini inizia col solstizio d'inverno, che non so come chiamino gli astronomi del Sud: quindi a Natale fa caldo. Dapprima l'iperboreo si sorprende, ma col tempo ci si abitua e il sole di rame in campo azzurro diventa l'emblema di quella festa anche per l'immigrante che in patria imparò ad amarla in un paesaggio di neve.
Nel primo pomeriggio di una vigilia di Natale rincasavo in auto, dopo aver brindato alla festa imminente con alcuni colleghi d'ufficio, modesto rito che si ripete ogni anno e conclude la giornata lavorativa del 24 dicembre, verso le tredici. Senza un vero perchè mi avviai per la rotta più lunga, ma anche più attraente e di meno transito, che traversa il Parco di Palermo, vasta zona di verde in cui si trova anche il PLANETARIUM GALILEO GALILEI, chiamato semplicemente "Planetario" dal volgo. L'unico trascurabile segno che vorrebbe ricordare al pubblico lo scienziato cui s'intitola l'edificio è un brutto medaglione di gesso, alto forse un uomo, tutto scribacchiato dai visitatori, che reca l'effigie e il nome dello sventurato Pisano. Appunto accanto a questo medaglione mi attendeva Ermete in guisa di vigile urbano, quale parve a me (per inganno degli Dei). Mi fece segno, fermai, mi chiese educatamente un passaggio, glielo concessi. Ho tralasciato di spiegare che il Parco era pressochè deserto, il che rendeva il mio fortuito incontro anche meno probabile, in quel meriggio cocente dedicato dai più alle libagioni propiziatorie.
Delle quali non si era certo privato il mio passeggero, come divenne evidente quando i primi tentativi di conversazione ne stimolarono una retorica assai più ardita di quanto gli avrebbero permesso le sue condizioni. Pretendeva di sviscerare uno dopo l'altro gli assoluti, ma la ressa delle idee sembrava gli impedisse, nonchè di tornire le frasi, addirittura di concluderle. Io ascoltavo con pazienza, certo che il Nume mi avrebbe parlato attraverso quel perfetto veicolo, e riconoscevo ormai che allo scegliere quella strada insolita avevo ubbidito ad un misterioso richiamo.
Finalmente, dopo alcune considerazioni tronche circa la baldanzosa incoscienza della gioventù d'oggi, il mio compagno sembrò perder piede nelle acque di quell'etica troppo profonda e tacque per qualche minuto. Poi d'un tratto, in un momento d'illuminazione quale a volte si sorprende nei dementi o nei fanciulli, con le pupille contratte nello sforzo di ricordare, pronunciò nitidamente il seguente oracolo, nello Spagnolo storpiato del Porto : "Como dijo Galileo Galilei, dejenlòn vivir: serà su pior castigo".
Buenos Aires, Ottobre 1982