II - IL TRAM NUMERO TRENTA
L'episodio che mi accingo a narrare avvenne a Firenze poco prima della Seconda Guerra Mondiale. Abitavamo in Via del Romito, a mezza strada fra il Mugnone - caro a messer Boccaccio - ed il rione popolare di Rifredi. La nostra dimora era il pianterreno di una villa del secolo scorso, cui già a quell'epoca restava solo una stretta cintura di orto (sul dietro) e di giardino (colla ghiaia, sul davanti) e che oggi non esiste più, distrutta dalla avidità degli speculatori che preferirono alle sue linee ottocentesche i venti appartamenti (quattro piani senza ascensore) che non mi sopravviveranno - per sollievo dei miei posteri.
Il luogo esatto di questa vicenda è la confluenza di Via del Romito con Via Bonaini e con il terrapieno della ferrovia, là dove Via del Romito penetra nell'ombra del doppio cavalcavia di ferro. Via Bonaini e la ferrovia convergono con una inclinazione reciproca di circa 60 gradi e nel luogo dell'incontro fra loro e con Via del Romito formano tre angoli uguali ed adiacenti la cui somma è un angolo piatto, circostanza che forse spiega l'arcana atmosfera di quei paraggi. All'epoca di cui si tratta, nessun veicolo poteva percorrere Via Bonaini, perchè il Comune ne aveva appena completato la massicciata di pietre grandi irregolari, grandi ciascuna forse un pugno di bimbo, ma non aveva concluso i lavori. Poi la guerra rese povera la città e la massicciata restò tale e quale per lungo tempo. Ricordo la macchina schiacciasassi che passava e ripassava sulle pietre fino a saldarle in un mosaico ruvido che non lasciava crescere nemmeno un filo d'erba. Ancora adesso sogno - nelle grandi occasioni - il poderoso rullo compressore avanzare implacabile sulle inconsapevoli margherite selvatiche che, prima di morire, tremano un'ultima volta al fragore della ferraglia che le sconvolge come se soffiasse il vento: e il cielo brilla come acqua di lago nel tepore della primavera. Quel luogo mi piace appunto ricordarlo quale appariva sotto quel sole fermo nel cielo terso. Via del Romito, percorsa dalle roventi rotaie del tram il cui fulgore si spegne nell'oscurità del sottopassaggio; il lucore delle pietre, che selciavano Via Bonaini, ridenti come ossami nel deserto e, là dove il terrapieno diviene cavalcavia e Via Bonaini si getta in Via del Romito, biancheggiante contro la parete del terrapieno, proprio nel vertice senz'ombra, il pisciatoio di porcellana tanto frequentato - perchè era l'unico dei dintorni - che m'immaginavo scolpito nella viva madre di quell'elitropia che Calandrino malamente smarrì.
Fra le ragioni che mi rendono caro quel luogo c'è un ricordo di scuola elementare che non ha a che vedere con questo racconto, ma che vorrei annotare qui per non correre il rischio di dimenticarlo. Il maestro di quarta ci aveva ordinato di disegnare la carta topografica del nostro rione. Io, che mi sapevo maldestro col lapis, lasciai il compito per l'ultimo momento e alla fine chiesi aiuto a mio padre. Per lui era un gioco da fanciulli, dato che era cartografo di professione - medaglia d'oro al Congresso di Parigi per la sua bellissima carta dell'Etna. Tuttavia si fece pregare a lungo, credendo che aiutarmi in quel caso non fosse il meglio per la mia educazione. Finalmente accettò, ma tanto controvoglia che limitò la mappa all'area appena descritta: cinquanta metri di Via del Romito e trenta di Via Bonaini (pitturate di giallo), le case (di rosso) d'ambo i lati delle strade e il terrapieno - appena una linea di verde sfumato. Il maestro convenne che il lavoro, pur coprendo un'area poco estesa, meritava un dieci per l'esecuzione impeccabile. E' strano che io non abbia avvertito fino a questo preciso momento che in quell'episodio scolastico, apparentemente banale, sia da ravvisare una premonizione.
Fu in Via Bonaini che guadagnai la prima lira della mia vita. Me la dette un signore dall'aria preoccupata, che indossava un impermeabile sgualcito. Mi fermò mentre andavo per commissioni e mi pregò di consegnare una lettera al terzo piano della casa di faccia. Detti la lettera ad una donna in grembiule che mi venne ad aprire, forse una cameriera a tutto fare. Il signore coll'impermeabile mi aspettava sul marciapiede di fronte, sbirciando le finestre del terzo piano da sotto la tesa del suo feltro frusto. Mi pagò dopo che l'ebbi informato sulla mia missione. Quella lira, degna di essere conservata in cornice per monito mio, finchè io viva, e delle generazioni venture, invece me la spesi subito alla pasticceria di Via dello Statuto, dove ero diretto per incarico di mia madre, giacchè c'erano visite e quindi occorreva una torta. Colla mia lira comprai dei pasticcini che mangiai sul momento. Non sono ancora trascorsi quaranta anni, come chi dicesse un granello di sabbia per la clessidra dell'Universo, ma di quei pasticcini non ricordo più nè la foggia nè il sapore.
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Mia mamma spesso mi affidava incarichi, che non sempre eseguivo senza inciampi. Per esempio la volta che mi cadde la bottiglia di varechina. Allo spezzarsi sul marciapiede, il contenuto mi schizzò sulle gambe e scolorì le calze marrone sporco che indossavo, che a partire da allora assunsero uno sgradevole aspetto, tutte chiazzate di giallo canarino, finchè col tempo si lacerarono e finirono la loro carriera come stracci. Ma imparavo e miglioravo, ed attendevo con ansia che mi si affidasse una commissione più impegnativa, che richiedesse allontanarsi dal rione - magari da prendere il tram -, percorrere, finalmente da solo e con un obbiettivo preciso, le strade del centro. E, dai dai, l'occasione arrivò in un tardo pomeriggio d'estate. Mia mamma era impegnata in casa colle lezioni (di pianoforte) ed ebbe a mandare con urgenza uno spartito al Palazzo di Parte Guelfa. Mi consegnò il pacchetto e mi spiegò minuziosamente come fare, fra mille raccomandazioni. La sua preoccupazione era logica giacchè aveva deciso solo "in extremis" di ricorrere a me e solo perchè si trattava di un caso di emergenza. Temeva per l'incarico e soprattutto per me, mandato come chi dicesse allo sbaraglio. Dovevo prendere il tram 30 nero, perchè faceva capolinea in Via de' Pecori, a poca distanza - forse centocinquanta metri - dal Palazzo di Parte Guelfa. Che badassi bene a non prendere il 30 rosso, che mi avrebbe lasciato più lontano, a rischio poi che non mi accorgessi di essere arrivato, dato che il 30 rosso continuava, al di là del centro, fino all'Affrico, e chissà fino a dove avrebbe potuto portarmi. Che badassi bene a non smarrire il pacco, a non farmi rubare i soldi (che erano poi una lira), a non perdere tempo, perchè l'ufficio chiudeva alle sei. Mi dette la lira per il tram e uscii di casa con il pacchetto sotto il braccio, più preoccupato che fiero per l'incarico di fiducia. Si passa la vita sperando gran cose e, se Dio ne guardi arriva il momento, non sappiamo dove mettere le mani e vorremmo le mille volte tornare al confortevole trantran di sempre. Ma, ahimè, non esistono che il progresso e il declino. L'aurea immota stasi è una condizione meramente congetturale che in realtà, al di là delle ipotesi, ben di rado sperimentiamo, se non forse per istanti, come il breve tragitto percorso in equilibrio sulle onde da chi compete nel surf.
I tram numero 30 avevano la fermata all'angolo cui ho sopra accennato, appena prima del cavalcavia. Chi attendesse guardando il terrapieno, s'abbagliava col bagliore dell'ossario e dell'elitropia, che induceva a pensieri poco volgari - l'eternità dell'essere versus la transitorietà dei fenomeni. Anni dopo, avrei riveduto il medesimo luogo cosparso di rottami, calcinacci, cavi contorti - dopo un bombardamento aereo in cui mi salvai per caso. Decenni dopo, cioè oggi, l'angolo è un luogo qualunque, entrambe le strade asfaltate, il pisciatoio scomparso, un autobus ha sostituito il tram numero 30. Mi si permetta una glossa: in quell'epoca si guardava al tram come ad uno dei perdurabili trionfi della civiltà. Il tempo futuro si concepiva come un presente potenziato, quindi con più tram. Nessuno immaginava che invece il tram stesse per sparire non solo da Firenze, ma da quasi tutte le città del mondo; che, cinquantanni dopo, non sarebbe stato più che un veicolo da museo e da Parco di Divertimenti, che, più di ogni altro mezzo di trasporto, sarebbe assurto a simbolo del Passato, cioè di quel tempo migliore che non torneremo a vivere.
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Riprendo il filo del mio racconto. Una delle ragioni del mio malumore era la proibizione appena ricevuta di usare il 30 rosso, che era uno dei pochissimi tram col rimorchio - doppia vettura, doppio fracasso, doppio stridere di freni sulle curve, doppio tutto e per giunta il rimorchio, che già allora sembrava un oggetto da museo, un fratello maggiore delle Ford A. Il rimorchio era tanto popolare fra i miei coetanei che il figlio dell'ortolano - purtroppo non ne ricordo il nome, ma era il più povero e l'ultimo della classe - aveva chiesto e ottenuto come regalo di compleanno dai suoi genitori che gli pagassero una corsa completa nel rimorchio del 30 rosso da Careggi (oltre Rifredi) fino all'Affrico: tutta la città traversata pacificamente una Domenica mattina nel rimorchio semivuoto - perchè gli adulti, chissà perchè, preferivano la carrozza motrice, del tutto identica a un tram comune - ora seduto accanto al finestrino - un immenso schermo di vetro che lo proteggeva senza isolarlo, l'emozione senza il rischio, la varietà senza lo sforzo - ora in piedi sulla piattaforma posteriore, a guardar fuggire le rotaie, proprio come sembra fuggire la scia di una nave a chi scruti l'oceano dalla poppa. Mentre attendevo, molciva la mia melanconia un ricordo primevo che mi offriva, per lo meno, la consolazione di sapermi cresciuto. Mi ricordavo di una volta al Viale dei Colli, in tram, in compagnia della Zia Bella. Da tempo la mia statura superava il metro e la mia mamma, quindi, soleva pagare anche per me il biglietto, ma la Zia non lo sapeva. Il fattorino ci domandò se io pagavo il biglietto; risposi - convinto - di no (perchè sempre lo pagava mia mamma). Non mi credettero, mi misurarono in piedi contro lo stipite della porta scorrevole, si convinsero che avevo mentito, la Zia pagò il bigliettaio e mi rimbrottò, con una certa durezza, per la bugia e per averla "fatta scomparire". Mia Zia è morta di vecchiaia circa quarant'anni dopo ed è probabile che negli ultimi anni della sua vita non si ricordasse più di questo episodio; comunque non seppi convincerla, nè sul momento nè poi, che si trattò di un malinteso. Le imprecisioni di linguaggio, come quella del fattorino cui mi sono appena riferito, contribuiscono assai allo stato di confusione in cui per lo più si trovano le faccende umane e che in gran parte dipende dalle nostre limitazioni fisiche e mentali. Fra le ore del sonno, quelle del risveglio con le abluzioni e lettura del giornale (altra fonte d'equivoci), quelle in cui ci alimentiamo e quelle di stanchezza che precedono il sonno seguente, sono ben scarsi i nostri tempi di lucidità ed è anche allora una lucidità relativa, limitata alla nostra statura individuale e che di rado si presenta simultaneamente a quella di chi ci circonda. Perciò l'aneddoto del "dove vai? - son cipolle" va visto come uno dei più illuminanti ritratti della nostra vita sociale; scherzoso antenato della regola severa imposta alla Gioventù Italiana del Littorio - nei tempi tanto esecrabili - che ci ripetevano con insistenza, fino alla nausea, gli istruttori nelle Adunate e gli insegnanti di educazione fisica nell'ora di ginnastica: "gli ordini sbagliati non si devono eseguire". Ogni volta si sperimentava almeno un caso pratico - sempre di sorpresa per esercitare la nostra prontezza - che consisteva nell'ordinare il "Presentatarm" mentre eravamo in posizione di "Riposo" anzichè sull'"Attenti". Alcuni, sempre meno, ci cascavano.
Mi spiace aver divagato e torno definitivamente a bomba. Arrivarono un paio di 30 neri, coi passeggeri appesi a grappolo sui predellini. Era l'ora di uscita degli operai che lavoravano a Rifredi: nessuna speranza di salire in vettura per un fanciullo con un pacco sotto il braccio! Per accrescere il mio tormento i rimorchi del 30 rosso, come sempre avveniva, erano un po' meno affollati delle carrozze motrici e dei tram comuni. Tanto, che a forza di spintoni avrei anche potuto farcela. D'altronde era quasi tardi e fra le onnipresenti raccomandazioni della mamma la più essenziale mi pareva fosse quella di arrivare al Palazzo di Parte Guelfa prima delle sei, obbiettivo che non avrei potuto compiere se avessi insistito nel voler utilizzare un 30 nero. Da queste considerazioni fui indotto a domandarmi, dapprima come mera ipotesi, se per avventura, nelle circostanze specifiche, l'ingiunzione di utilizzare un 30 nero non potesse rivelarsi un "ordine sbagliato" e quindi io fossi automaticamente prosciolto dall'obbligo di compierlo; anzi se addirittura il mio dovere non fosse quello di prendere in considerazione metodi di trasporto alternativi, senza scartare "a priori" nemmeno i casi limite, quale quello di utilizzare il 30 rosso, dato che la proibizione avrebbe potuto rivelarsi, anzi si rivelava senz'altro, come nulla di nullità assoluta, aldilà del suo ingannoso aspetto di legalità piena.
Finalmente, dopo aver vagliato metodicamente i fatti ed i principi e cercato di escogitare sistemi di trasporto alternativi con tutta la creatività di cui ero capace, per fortuna mia e del mio incarico decisi di abbordare il rimorchio del primo 30 rosso che passasse. Mia mamma non venne mai a sapere la verità.
Buenos Aires - Mar del Plata - Novembre 1982