V - LA LETTERA DELLA ZIA
La lettera della Zia arrivò di mattina, mentre Filippo era al lavoro, ed attese il suo ritorno, col suo pavese di francobolli in campo azzurro, sulla mensola accanto alla porta di ingresso. L'indirizzo era scritto con la calligrafia sottile ed inclinata della Zia, una calligrafia che certamente era di moda alla fine del secolo scorso e che ormai usano solo le persone d'età. Di solito la Zia mandava lettere molto interessanti, descrivendo paesi che stava visitando perchè prima di morire voleva vedere ancora una volta tutti i suoi parenti; ne aveva in tutta l'Europa e tutti la accoglievano volentieri e l'andavano a prendere all'aeroporto in automobile, quando arrivava con le sue valige a soffietto da cinquant'anni fa. Filippo conservava le lettere in ordine di data in una cartellina grigia e metteva da parte i francobolli, dopo averli staccati delicatamente dalle buste.
Questa volta la lettera era diversa: era morto il Padrino. La Zia non aveva neppure potuto andare al funerale, perchè non si trovava in Italia. Aveva ricevuto la notizia dall'afflitta Madre Superiora, che le aveva inviato anche un ritaglio di giornale, l'elogio funebre pronunciato da Monsignor Pedri. Non si sapeva ancora chi avrebbe sostituito l'Estinto nella direzione del Collegio e la Madre scriveva a questo riguardo che sarebbe stato ben difficile trovare la stessa amorevole previsione e dolce severità - la stessa carità animosa - nel successore. La Zia aveva messo nella busta anche il ritaglio di giornale, pregando Filippo di restituirglielo, quando le avesse scritto.
Filippo aveva imparato in quel collegio ad essere diligente e sereno, qualità che lo aiutarono non poco ad edificare quella vita raccolta e gioiosa che gli amici e la moglie consideravano un esempio. Non aveva mai compreso come nella famiglia ci potesse essere una persona turbolenta e insoddisfatta come la Zia. Quanto a lui, non avrebbe certamente trascorso gli ultimi anni in pellegrinaggio da un paese all'altro. D'altra parte anche la Zia, come egli la ricordava, era stata una persona tranquilla. Finchè fu viva la Nonna, non si staccò un giorno da lei. L'assistette nella sua lunga malattia, meglio di come avrebbe potuto fare una infermiera. Poi la Nonna morì, una notte, a pochi giorni dalla primavera.
Anche il Padrino, come la povera Nonna, era morto in casa; la Nonna però era morta senza i conforti della religione. Era la prima cosa che aveva domandato il medico, un medico giovane che conosceva poco il suo mestiere, e che giunse con la fattura pochi minuti dopo il decesso. Il padre di Filippo gli contò i denari in mano, senza neppure ringraziarlo, e Filippo, che a quel tempo era poco più di un bambino, lo aveva accompagnato fino al pianerottolo delle scale. Era successo di notte, molto sul tardi. La Nonna era seduta sulla sua poltrona sbiadita - ogni tanto si lamentava - e la Zia stava rigovernando in cucina. Filippo desiderava essere vicino alla Nonna, con lo spirito, ma la stanchezza gli tirava giù le palpebre e gli si disegnavano negli occhi dei reticolati luminosi che confondevano gli oggetti e il volto della Nonna, cereo, col mento appoggiato alle mani e le mani al bastone del povero Nonno. Poi, mentre la Zia veniva dalla cucina, la Nonna aveva respirato con un sospiro lungo, tranquillo, da persona sana. La Zia lo aveva scosso e, con gli occhi sbarrati, gli aveva ordinato, senza spiegazioni, di telefonare al Babbo perchè venisse subito. Era la prima volta che moriva qualcuno, accanto a Filippo, e neppure se ne era accorto; nessuno se lo aspettava più, tranne la Zia, così alla fine dell'inverno. L'Annetta, quando veniva a trovare la Nonna, diceva, a mo' di saluto: "Hai una buona cera, fatti animo, ora viene l'estate". Poi giocavano a carte tutto il pomeriggio, mentre Filippo, in silenzio, faceva i compiti di scuola seduto al tavolo giallastro ed imparava a memoria le lezioni. Era l'orgoglio della Nonna fargli recitare le poesie e, quando veniva l'Annetta, ma sopratutto quando veniva la Gemma, le tre vecchie lo ascoltavano, sorbendo il the e abbandonando per qualche minuto le chiacchiere ed il gioco di carte.
Il marito della Gemma, Filippo lo aveva veduto una volta sola, anni dopo, ormai distrutto dalla stessa malattia di Monsignore. Aveva le tempie bianche come la cera e parlava una lingua antica di cent'anni, da persona colta di quei tempi. Filippo gli era andato a far visita col Babbo: li aveva ricevuti nello studio, seduto su una poltrona del seicento, circondato dalle pareti tappezzate dai suoi quadri, sullo sfondo di una vetrata che lasciava entrare a fiotti la luce dal giardino silenzioso. Parlando, agitava la barbetta bianca, ormai sfilacciata. Era un vecchietto assottigliato dalla malattia, colle ossa deboli come canne secche, ammucchiate e immobili nella sua bella poltrona. Tutti quei vecchi avevano una loro poltrona: quella sbiadita della Nonna, quella di cuoio nero di Monsignore, dietro la scrivania della Direzione, e forse anche l'Annetta e la Gemma avevano avuto una poltrona che aveva riposato per qualche minuto, nel mormorio della radio accesa, le loro povere carni spremute. Tutte avevano lasciato figli ed erano tutte nonne. Anche lo Zio Battista, il figliolo della Gemma, qualche volta veniva a visitare la Nonna, ma la Nonna lo considerava molto noioso e Filippo e la Zia inventavano sempre scuse per farlo andar via presto, per lo meno dalla stanza della Nonna. Qualche volta si tratteneva con Filippo e con la Zia nel salottino da ricevere, seduto sul vecchio sofà, raccontando i suoi viaggi da commesso viaggiatore. I libri severi della Zia, allineati in bell'ordine nei loro scaffali, sembravano criticare freddamente le cravatte sgargianti dell'ospite.
Poi Filippo aveva passato qualche anno nel collegio di Monsignore, che era suo padrino di battesimo. Il Collegio era in una cittadina molto ricca e famosa per le scuole perchè era l'unica città, in tutta quella regione di agricoltori, dove i figli dei possidenti potevano studiare. Il Collegio, che Monsignore, aiutato da un convento di suore coraggiose e
affaccendate, aveva costruito a forza di volontà e di donazioni di gente dabbene, era l'istituto migliore del luogo ed i maestri venivano da università famose. Gli anditi erano chiari e perfino le mura bianche del cortile e le scodelle di stagno, vigorosamente lustrate dalle monache rubizze, avevano un'aria gioiosa e contribuivano non poco all'allegria l'aria buona dei campi ed i volti abbronzati e sani dei compagni di studio. La domenica tutti gli alunni si recavano al cinema o alla partita di calcio, guidati dai maestri di disciplina. D'estate Filippo abitava in casa di Monsignore e passava i pomeriggi al fiume coi ragazzi della Parrocchia, sorvegliati da un frate giovane dalla testa rasata. Verso le cinque, fatta merenda, recitavano tutti insieme il rosario e le litanie, seduti in circolo sotto i salici.
Il marito della Gemma era morto mentre Filippo studiava nella Facoltà di Legge. La donna di servizio, poco dopo il tramonto, lo era andato a chiamare per la cena, e non aveva risposto. Sembrava assopito. Era seduto su una poltrona di vimini, in giardino. Il giardino era silenzioso come quando Filippo era andato in visita col Babbo. Le erbacce crescevano fra i fiori, in confusione, come in un giardino abbandonato. La ghiaia era affondata nei vialetti e tutto aveva un aspetto incantato di eternità, come un campo santo. Perfino il sole, quel pomeriggio, sembrava la rimembranza di un giorno d'estate, con le sue carezze di luce dorata e ferma che variegavano le foglie polverose. Sembrava una serra, quel giardino.
Il povero vecchio aveva regalato al Babbo i suoi pennelli. "A me ormai, disse, non servono più. Prendi quelli che ti occcorrono." Il Babbo ne aveva presi alcuni, ringraziandolo, e mai li usò. Lo commosse che quel vecchio gli regalasse gli strumenti della sua vita intera.
Un quadro del Babbo rappresentava la stanza di Filippo in casa della Nonna, coll'armadio a specchio e i due letti di ferro nero, quello della Zia e quello di Filippo. Lì era stato malato (quando aveva avuto la scarlattina). Era un letto robusto, con tre materassi, morbido e comodo. La mattina alle sette la Zia gli portava la colazione a letto, l'uovo sbattuto e i biscotti: poi Filippo si vestiva, baciava la Nonna e andava a scuola, con la cartella d'incerato sotto il braccio. Quando riportava qualche bel voto, la Nonna, in premio, gli permetteva di aprire il cassetto dei dolci e di prendere quelli che preferiva. C'era dentro una cassetta di latta, piena di biscotti e di cioccolatini col liquore. Invece il sabato il giornalaio gli portava il giornalino illustrato d'avventure. La Nonna calava il cestino dalla finestra della camera, con uno spago, e, insieme al quotidiano, tirava su il giornalino per Filippo. La Nonna e la Zia avrebbero fatto qualsiasi cosa per lui. Poco tempo prima che la Nonna morisse, una notte la Zia venne a svegliarlo piangendo e lo condusse per mano, in pigiama, senza neppure fargli infilare la giacchetta, nella stanza della Nonna. Era seduta sulla poltrona: era dal principio dell'inverno che sedeva su quella poltrona, perchà l'asma le impediva di stendersi. Dormiva, colla radio accesa sottovoce, appoggiando il mento alle mani e le mani al bastone del povero Nonno; e la Zia, instancabile, la vegliava, seduta nella poltrona dell'Annetta. Su quella stessa poltrona sedette Filippo quella notte e non disse parola. La Nonna gli parlò a lungo, ma quello che gli disse lo dimenticò e forse neppure lo intese, tanto lo impressionava la stanza, appena illuminata dalla lampada da notte; e la Zia in piedi, accanto alla Nonna, piangeva in silenzio. La Nonna gli regalò l'orologio d'oro del Nonno, poi disfece tanti pacchetti che aveva in una valigia. Di ogni pacchetto guardava a lungo il contenuto, poi diceva: "Quest'anello, oppure, questi orecchini, sono per tua sorella, oppure, per la figlia dell'Annetta". Poi rinvoltava il gioiello nella sua carta velina e passò così molto tempo, qualche ora forse, finchè a traverso le persiane filtrò la luce grigia di una delle sue ultime albe. Per un momento Filippo comprese che la Nonna non avrebbe visto fiorire i peschi del Babbo e che l'Annetta non sarebbe più venuta in visita e che presto nessuno avrebbe più acceso la radio e che il cassetto dei dolci sarebbe rimasto vuoto.
Filippo, leggendo la lettera della Zia, ricordava l'inizio della sua vita nella vecchia casa della Nonna e, poi, nel Collegio - nella cittadina odorosa di cantina e di vino buono. Ricordava le messe celebrate al mattino presto da Monsignore, le belle monache aggirarsi nelle stanze della sua casa sconnessa, profumata d'incenso e sempre intonacata di fresco, le lunghe ore passate ad osservare la pioggia attraverso la finestra della camera, la gente che passava per quelle tranquille strade di provincia. Tutta gente che era andata, senza dubbio, al funerale del Padrino ed aveva ascoltato compunta le commosse parole di Monsignor Pedri. Aveva rievocato la vita di lotte del Padrino, quell'eroica vita che era un trionfo della luce sulle tenebre. "E non solo dobbiamo pensare commossi alla sua anima santa: ma dobbiamo sentirlo vivo fra noi, in quel monumento che costruì colla tenacia che solo accompagna le opere buone. Egli vive nel Collegio e nei giovani che egli ha amorosamente educati sulla via della rettitudine e della pace."
Olivos, circa 1950