I - RAPE E CAROTE
(Poemetto in prosa)
Una notte, mentre passeggiavamo insonni -chiacchierando del più e del meno- per le strade di una lontana Capitale, Alberto Solá, che fu Ministro dell'Industria in Argentina, affermò che ai bambini non piacciono i sapori nuovi (e me ne spiegò le cause, che ho dimenticato). Deve essere vero, se lo dice lui, uno dei più eruditi uomini d'affari che io abbia conosciuto. Da giovane aveva avuto una libreria, con pochi clienti, il che gli aveva permesso di impiegare la maggior parte del giorno nello studio: aveva imparato a leggere col libro appena socchiuso, perché restasse nuovo. Ma la sua cultura invadeva campi molto più vari: per esempio in quella stessa notte venni a sapere che conosceva benissimo la Sonata Concord di Charles Ives che, per lo meno fino ai tardi sessanta, era roba da iniziati.
D'altronde, quanto ai bambini ed ai sapori nuovi, mi basta rammentarmi della mia infanzia per dargli ragione. A me, per esempio, non andavano giù né le banane, né le rape, né le carote. Certamente dovevano avere un sapore ben diverso da quello d'oggi, se mi disgustavano tanto. O forse era la forma della banana, che mi causava cattiva impressione; o il colore delle carote, così poco adatto a una verdura; o la misteriosa proprietà delle rape, il cui gusto esecrato -del concetto mi ricordo- mi assaliva a tradimento sia quando assaggiavo con prevenzione le cime quasi nere, fossero lesse o rifatte al burro, sia quando masticavo le radici - bianche e farinose quanto la mandioca, ma, ahimè, non altrettanto gradevoli al palato.
Circa le banane, non ricordo episodi esemplari. Per quanto risalga indietro, la mia memoria registra questa mia avversione come un fatto sempre esistito e suppongo che la Mamma lo tollerasse solo in considerazione dell'alto prezzo di quelle frutta esotiche. Ma ben diversa era la sua reazione nel caso dei due vili ortaggi. Vale la pena registrare qui i momenti critici di quel lungo conflitto, principiando dai suoi prodromi.
Sembra che mio Nonno, che era Generale, pretendesse che le sue quattro figlie mangiassero senza far storie quanto venisse servito loro a tavola. Se qualcuna osava disubbidire, il Generale faceva mettere da parte quanto fosse avanzato nel piatto e glielo faceva servire di nuovo ad oltranza, nei pasti successivi, come unico alimento, finché la peccatrice si decideva a mangiarlo. Questa punizione era veramente temuta ed efficace, soprattutto perché a quell'epoca non esistevano i frigoriferi. A questa implacabile maniera di educare attribuisco il temperamento audace ed al tempo stesso segretamente disperato della Mamma che, sia detto di passaggio, da adulta si rivelò incapace di riconoscere la qualità e tanto meno l'origine dei sapori, e non divenne mai un granché in cucina. Devo chiarire che io non conobbi il Generale, perché quando nacqui egli era già morto da un pezzo; ma, al vederne nei ritratti gli occhi sereni e gli allegri baffoni candidi, mi vien fatto di pensare che queste regole di rigidità militare fossero piuttosto volute dalla Nonna detta Memé -sua moglie- di cui ebbi modo di apprezzare il carattere deciso ed autoritario durante molti anni.
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Fu appunto da Memé che mi riconciliai, o sembrò che mi riconciliassi, con le carote. Diciamo intanto che a pranzo là, si andava di rado: ed erano occasioni solenni. Memé abitava nel Viale Galileo, proprio dove Firenze, fra lo stormire di alberi secolari, prende l'avvìo per salire al Piazzale. La sua dimora conservava l'eleganza dei tempi in cui, vivo il Generale, si riceveva la città in salotto ogni mercoledì pomeriggio. Cucinava l'infaticabile Cesarina, a servizio da Memé fin da giovanissima, quando calò piena di apprensioni dal duro Appennino Pistoiese, ricco soltanto di castagne. Inaspettatamente, allo scoprire la inesauribile varietà delle vivande cittadine, il suo estro fiorì nelle più magiche arti culinarie. Gli anni aiutano a raffinare il discernimento e le capacità, così come insegnano ai vini a tralasciare l'effimero per concentrarsi nei sapori e negli odori veramente meritevoli, ma devo ammettere che anche in quell'alba dei tempi la Cesarina era unica. E fu impareggiabile nell'occasione delle carote francesi che dà principio alla mia storia.
Il piatto principale, quella volta, fu carne con contorno di carote che, come già sapete, mi risultavano ripugnanti. Non vedevo scampo, perché ci si trovava nel sancta sanctorum delle strette regole cui ho già accennato e che, per mia sventura, la Mamma aveva deciso di applicare e cercava di applicare -in casa- anche se non molto rigidamente. Ma immaginatevi cosa sarebbe successo quando, per confortare e stimolare la Mamma nella sua crociata, rifulgessero nella penombra della sala da pranzo il pur benevolo sguardo del Generale -dal ritratto grande appeso alla parete- e quello severissimo di Memé in carne ed ossa! Per fortuna la Cesarina mi prese da parte prima di pranzo e mi convinse che non si trattava di carote nostrane, ma di carote importate dalla Francia, cui il sole e il suolo della Provenza avevano dato un sapore tutto diverso, fino al punto che, chi le avesse mangiate al buio o, comunque, senza guardarle, non avrebbe potuto proprio immaginare che si trattasse di carote. Dato che non c'era scampo, mi rifugiai tutto nella speranza che la Cesarina non mi stesse mentendo, e mi andò bene, per virtù della salsa magistrale.
La prima a non credere ai suoi occhi fu la Mamma, che si era attesa chi sa quali scene ed aveva temuto quanto me il momento in cui avrebbe dovuto decidere se mi avrebbe permesso di non mangiare il contorno o se mi avrebbe messo in castigo, ben sapendo che in entrambi i casi avrebbe rovinato l'occasione festiva. Quindi fu con profondo senso di sollievo che assistì al miracolo; anzi addirittura credette di avere imparato il trucco per vincere la mia ripugnanza. Tanto è vero che nel rincasare, dopo avermi lodato per il buon comportamento tenuto a tavola, mi annunciò la sua intenzione di dare preferenza da allora in avanti alle carote di varietà francese e che anzi subito lunedì ne avrebbe comprate, dato che mi erano piaciute tanto da essermene fatto servire due volte.
A quell'epoca abitavamo nella prima periferia di Firenze, in quella Via Guasti che è la continuazione di Via dello Statuto fra i ponti della ferrovia e Piazza Viesseux, in un "palazzo" dalla tetra facciata di pietra bugnata, solido da sfidare i secoli. Purtroppo in seguito mio padre -e soprattutto la Mamma- si lasciarono convincere da un vicino arruffapopoli e minacciarono di far causa all'Istituto delle Case Popolari per certi difetti occulti che presentava lo stabile. L'Istituto finì per restituire loro il denaro pagato, e dovemmo sgomberare. Ma, ai tempi delle carote francesi, ancora ci ospitava Via Guasti e la mia vita doveva essere abbastanza felice, come me lo lasciano supporre certi ricordi: il tepore di un raggio di sole imbevuto di pulviscolo che illuminava misteriosamente i miei soldatini di piombo, schierati a battaglia sul tappeto buono del salotto - la festa in cui la Befana in persona distribuì le strenne a me ed ai miei piccoli amici - la volta in cui mio padre e la Mamma mi convinsero con la prova dei fatti che il nuovo tegamino di terracotta smaltata cuoceva le vivande da sé. Osservai il miracolo al colmo dello stupore: quando fui chiamato in cucina mio padre reggeva con uno straccio il tegamino già caldissimo in cui friggevano sfrigolando due uova quasi cotte, mentre egli ne continuava a fregare vigorosamente il fondo con un pezzo di carta di paglia, dettaglio che rivela appieno il temperamento artistico dei miei genitori. Episodi come questi valsero a convincermi che il mondo fosse un luogo magico in cui poteva avverarsi qualsiasi fantasia e debbo ammettere che la immagine che ne ho oggi, dopo aver scrutato e fiutato per tanti anni, non è molto diversa; solo non c'è più chi fermi i miei sogni, quando prendono una brutta piega, perché io possa cancellarli e ricominciarli da capo per indirizzarli al meglio. Chi sogna e chi è sognato è, d'altronde, un dubbio antico; una delle volte in cui tornò ad essere formulato fu appunto allorché, appollaiato sul seggiolone, vomitai, protestando, le atroci carote francesi che la Mamma mi cucinò quel famoso lunedì.
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Veniamo alle cime di rapa. Era trascorso qualche anno e mi trovavo ad Uzzano, un paese in collina dove i parenti di Roma possedevano due poderi ed una villa antica, tutta balconi schiusi su quella valle del Pescia che dette i natali a Pinocchio, poi reso famoso da Walt Disney. Era primavera e non ricordo perché io fossi là, ma probabilmente dovevo rimettermi da una malattia, giacché ero di salute cagionevole, come è il caso di molti primogeniti. I padroni non c'erano, ma abitavano lì momentaneamente gli Zii di Fiesole ai quali, in definitiva, ero stato affidato. La villa aveva un orto a terrazze, abbellito da pergole d'uva, dal prepotente frago dei limoni allevati nei giganteschi vasi di terracotta, dal mormorio delle fontanelle sempre piscianti traverso le bocche dei mascheroni scheggiati che raffiguravano ora satiri ora leoni. Lo spazio aperto permetteva alla vista di scendere per la collina morbida di ulivi fin dove scintillava il Pescia e di risalire l'Appennino, ingentilito dalla distanza, per confondersi nell'intenso cielo toscano. Ma negli angoli trascurati, quel paradiso di pomari e di mentucce celava, ahimè, anche le sue brave ortiche e fra le aiole di pomodori e tenere insalate ce n'era una odiatissima in cui appena appena cominciavano a spuntare le rape, circondate anch'esse, inspiegabilmente, dalle cure premurose degli Zii.
Lo Zio Sandro, che morì poi di nefrite, era un signore grassoccio e molto faceto, di quelli che raccontano molte volte le stesse barzellette, ma il suo temperamento propenso all'allegria veniva spesso ricondotto all'ordine dalla consorte (la Zia Bella) che aveva ereditato tutto il rigore di Memé. Ricordo la tristissima sera in cui mia cugina si permise di tornare a casa con la permanente, un modo di pettinarsi che era considerato scandalosamente nuovo e inadattissimo per una giovinetta. La cena si consumò in silenzio, alla fioca luce delle lampade male accese per una caduta di tensione, quasi che anche la compagnia di elettricità intendesse sottolineare il pathos di quella notte.
Perciò non deve causare stupore che cercassi di tenere a freno il mio odio per le rape, cioè che non passassi a vie di fatto, anche se soffrivo come Pulcinella in bicicletta ogni qual volta nelle mie scorribande passavo davanti alla temuta aiola (mi riferisco al noto aneddoto di Pulcinella piangente all'inizio di una scesa, perché prevede la fatica del ritorno). Finché una volta, all'osservare una fogliolina che troppo arditamente superava in altezza le congeneri, l'odio poté più del timore e la strappai di radice. Da allora in poi, ogni giorno, come il parrucchiere che rassetta a punta di forbice la barba di un avventore consuetudinario, strappavo gli esemplari più sviluppati procedendo quindi ad una accurata mimesi del terreno sottostante. Il procedimento forse dette i suoi frutti, perché le cime non furono mai raccolte durante quella mia permanenza. Ricordo vagamente che qualcuno mi osservò da una finestra e fece la spiata, ma ottenni i benefici del dubbio e l'accusa non solo finì in ridere, ma addirittura valse a render pubblica e in certo modo legittima la mia avversione per quegli ortaggi.
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Non può sfuggire al lettore quanto il protagonista di questo racconto sia maturato nel tempo trascorso fra l'episodio delle carote francesi (un vomito irrefrenabile e sterile come un grido di protesta intempestivo) ed il procedere cauto -pur nella sua audacia- dell'operativo "rape novelle". Ritroviamo lo stesso personaggio -anni dopo- nella sala da pranzo di Via del Romito, dove si è insediata la famiglia, in affitto. I severi mobili di foggia quattrocentesca, il pesante lampadario di ferro battuto, la stanza altissima col soffitto in penombra, offrono adeguato scenario al dramma che sta per svolgersi. Siamo a cena in quattro: i miei genitori, io e la mia sorellina. Nè io nè Lucia, che stiamo mangiando la minestra, mostriamo l'allegria di altre volte, perché sappiamo che la prossima portata è di rape lesse (radici). Pressoché sgomenti, non riusciamo ad immaginare come, anche con tutto lo spirito di sacrificio di cui sia capace, un bambino possa riuscire a ingoiare una intera porzione di rape lesse. Osserviamo con timore i gesti ieratici della Mamma, che sparge olio sale ed aceto sulla pietanza. Presto il rito sarà terminato ed il momento della verità sarà giunto.
Lucia infilza con la forchetta un pezzetto di rapa, lo porta alla bocca e torna a posarlo sul piatto, guardandosi in giro in cerca di scampo. Vederla triplica la mia angoscia, perché la avverto così piccina e tanto più indifesa di quanto lo sia io, che ormai ho già stoicamente inghiottito il primo boccone e, ora che ho cominciato, mi sento capace di masticare malamente tutte quelle rape lesse, all'occorrenza anche quelle di lei, e di buttarle giù in qualche modo. Ma comprendo che questo renderebbe anche più difficile la posizione di Lucia -unica ribelle-, perciò respingo la sedia dal tavolo, esco urlando dalla sala e vado a rifugiarmi in camera mia, dove la Mamma mi trova in lacrime, quando accorre pochi minuti dopo. Mi invita con dolcezza a tornare a tavola e mi assicura, credendo che questo valga a tranquillizzarmi, che anche Lucia verrà obbligata a vuotare il suo piatto, colle buone o colle cattive.
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Delle quattro Virtù cardinali, la più difficile da concepire e da praticare mi è sempre sembrata la Giustizia, perché molte delle regole che ci impone la convivenza sono di natura relativa, se non addirittura aleatoria, e perché per applicare le punizioni va fatto tacere il cuore, che è signore di una delle Virtù maggiori. Un illustre giureconsulto Argentino -Cosme Beccar Varela- con cui ne discussi anni fa, durante una cena, ammise di essere giunto, dopo tanti anni di professione, a conclusioni non dissimili.
Eppure certe volte il genitore, per educare, cioè per trasmettere al figlio il proprio collaudato decalogo -ché in questo consiste il processo educativo- si vede indotto ad usare la violenza, quale estrema risorsa, pur di evitare che il figlio vaghi alla deriva mentre cerca di costruire da sé una scala di valori che potrà risultare inadeguata -ahi, troppo tardi- allo scopo pratico di vivere o almeno di sopravvivere in questo mondo, dove la molteplicità delle alternative eccede, d'ordinario, la capacità di analisi del singolo.
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La struttura e gli episodi di questo Poemetto sono calcati su modelli classici. Il canto d'apertura principia con una Invocazione (dove Alberto Solà fa le veci di Musa ispiratrice), quindi presenta gli Eroi (io, la Mamma, il Generale, Memé) ed introduce il leit-motiv: la regola di ferro del Generale.
Il Canto seguente, che tratta gli episodi delle carote francesi, si svolge in due scenari diversi. La dimora nel Viale Galileo è l'immagine idealizzata di un mondo in cui l'individuo è artefice consenziente e convinto della convivenza. La Cesarina, acerba emissaria degli Dei, cala da un Olimpo nostrano (l'Appennino Pistoiese) e riesce per breve tempo a torcere i Fati. Ma tosto riprendono il sopravvento, nella loro più angusta espressione, i limiti entro i quali il protagonista si dispera, incatenato alle rocce del Caucaso. Il Canto che tratta delle cime di rapa nella quiete campestre di Uzzano, offre un respiro a tanta tensione; la situazione è potenzialmente violenta, ma gli indizi funesti si risolvono in un nulla di fatto, pari passu con lo scaltrirsi di Odisseo, ormai capace di burlare sia Scilla che Cariddi.
L'ultimo Canto, che si svolge nell'Ade, ripete il mito di Orfeo, che simboleggia il conflitto dei postulati comunitari con quelli dell'individuo, definitivamente sconfitto e punito. L'Esodo è una amara riflessione del Cantore sui condizionamenti della Simbiosi, argomento ultimo del Poemetto. Segue l'Esegesi, che qui finisce.