IV - GENOVA
Il treno, lungo la costa ligure, si insacca in una lunga serie di gallerie, che ogni tanto si squarciano dalla parte del mare, per mostrare certe baie strette e rocciose su cui splende il cielo. Quelle gallerie le attraversai nella terza di un treno, per andare a Genova insieme con un mio amico di molti più anni di me, un uomo serio e sposato.
Quel viaggio lo ricorderò a lungo. Partimmo da Firenze la mattina sul tardi; per tutto bagaglio avevo una cartella con qualche sandwich, biancheria ed alcuni pacchetti di sigarette. Non facemmo amicizia con le compagne di viaggio: erano queste due fanciulle umili, che discorrevano con un marinaio con parole che sembravano un canto. Noi invece guardavamo i paesi toscani e la campagna, interrotta da colline, da biancheggianti fiumi sassosi fiancheggiati di pioppi, da gruppi di cipressi intorno alle case tranquille, su cui cadeva con gioia il sole acceso del pomeriggio, ronzante di mosche per chi riposava all'ombra degli alberi guardando il treno fuggente.
Quando giungemmo a Viareggio, mi sentii sciamare per la gola l'odore del sale. C'era una donna in costume da mare bianco, sotto la pensilina, e quasi mi sembrò di vederne i passi affondare nella sabbia umida della mattina, quando il sole si leva in mezzo ai pini marittimi. Mi si stendevano i polmoni sotto la pelle, pensando alle onde ed al legno dei remi, e sentendo il profumo di quella città e delle sue notti scintillanti di luna lungo la spiaggia.
Avevamo alcuni periodici assai divertenti, che parlavano della politica del governo e della opposizione con facile acutezza, come esperti avvocati che non credono più in quello che dicono. Probabilmente per questo motivo ci mettemmo a parlare alla rinfusa di Campanile e dei suoi libri - di Mosca, di Metz, di Wodehouse, di Jerome - e, quando il discorso giunse a Dickens ed ai classici dell'umorismo, arrivammo alle gallerie ed il buio, reso appena opaco dalla lampadina azzurra dello scompartimento, ci fece tristi come dopo una notte di ballo, e tacemmo. Tacquero anche gli altri, pensando ognuno per proprio conto a fantasie che si sperdevano felicemente quando la galleria, per pochi secondi, si apriva sul mare.
Arrivammo a Genova, dopo avere esaurito i rispettivi repertori di storielle ed ogni argomento di conversazione. Salutammo i compagni di scompartimento e ci mettemmo a cercare un albergo. L'albergo lo trovammo nel centro, in una viuzza sporca che si inerpicava sul fianco di un quartiere alto e povero costeggiando un'altra larga strada piena di tram e di cose banali, che rimanevano in basso.
Siccome restavano alcuni dei panini col prosciutto che aveva preparato mia madre, decidemmo di non mangiare in trattoria. Ero molto emozionato perchè per la prima volta mi sentivo completamente fuori casa. La nostra camera aveva un solo letto, matrimoniale, nel quale avremmmo dormito insieme, e gli altri mobili necessari ad una camera. C'era anche un'ampia poltrona, sulla quale sedette il mio amico, che cominciò a mangiare.
Prima di darci la chiave della camera avevano annotato i nostri nomi nel registro e ci avevano fatto pagare in anticipo. Poi una ragazza, piena di curve molto allettanti e con un piacevole senso di esperienza e di nudità che le emanava dalla carne, ci accompagnò alla stanza, attraverso un labirinto di corridoi e di scalette buie e con cattivo odore. Nella stanza ci lasciò, dopo averci dato l'asciugamano, e quando ebbe richiusa la porta, il mio amico disse "si sta domandando perchè non la abbiamo pizzicata". "Avrà pensato che siamo gente strana, risposi, oppure che Lei, voglio dire tu, sei mio padre". Non era molto tempo che ci davamo del tu, e mi sbagliavo spesso.
Ci facemmo la barba e ci lavammo accuratamente il collo. Poi uscimmo e il mio amico comprò molte ciliege. Passeggiammo un po' per le strade, ma in fretta, perchè pensavamo di uscire di nuovo dopo cena.
Come posata adoprammo un coltello da tasca a cinque usi che era stato di mio padre ed aveva un vecchio manico nero sporco e le lame rugginose massacrate dal troppo uso. Bevemmo acqua del lavandino in un bicchiere di campagna di bachelite che, come tutto il vasellame di bachelite, odorava di uova fermentate.
Credo che abbiamo cenato con la luce spenta, vedendo solo per l'ultimo crepuscolo, che sbiancava la città e le sue grida ed il fetore della Genova povera. La stanza divenne scura intorno a noi e cominciavo a sentirmi male nello stomaco per aver mangiato freddo. Allora accendemmo una sigaretta e decidemmo di non uscire, per quella sera, mentre i tram squillavano per la strada più grande, sotto la finestra, e si accendevano i fanali notturni.
Il letto, ad occhio e croce, sembrava sporco. Io però, che specialmente con la luce elettrica non vedo bene i colori, sostenevo che le lenzuola erano bianche. Allora ci spogliammo: io avevo un pigiama di seta a strisce colorate ed il mio amico ne aveva invidia, perchè avrebbe dovuto dormire in mutande. Quando aprii le lenzuola trovai nel letto una scatola di fiammiferi e allora giudicammo che in quel letto aveva già dormito qualcuno. Provvedemmo a rovesciare le lenzuola ed allora fummo certi che fossero lenzuola vecchie, fra le quali chissà che piedi callosi si erano ravvoltolati. Pieno di compassione, cedetti la giacca del pigiama al mio amico e mi infilai di nuovo la camicia, perchè ne avevo una di ricambio nella cartella. D'altra parte poteva anche essere che in quelle lenzuola avessero dormito meravigliose ragazze senza camicia da notte.
Non chiamammo la ragazza perchè cambiasse le lenzuola, forse perchè non volevamo confessarci l'un l'altro che avremmo avuto piacere a rivederla e parlarle. Inoltre eravamo un po' intimiditi dal fatto di trovarci in un alberguccio per ladri e ruffiani, una società con la barba non rasa, che passa le giornate nel porto vendendo denaro di altri paesi, con sue strane leggi e diverso dialetto elaborati in luoghi sordidi e proibiti che per loro sono vita e per noi miseria e folklore.
Vecchi gabinetti foderati di marmo spaccato e imbigito come la canizie pulciosa, con un chiodo nel muro sul quale sventola come una bandiera un giornale strappato. Eppure tutto questo mi dava un entusiasmo fanciullesco, finchè sotto le palpebre chiuse mi arrivò il sonno, insieme con il brusio della strada e il ricordo dei barattoli sbuzzati nel secchio della spazzatura, del rullio del treno, delle onde che bagnavano la spiaggia come un ampio respiro e cancellavano i passi della ragazza tutta curve.
Buenos Aires, 1949