III - UN POMERIGGIO D'OZIO
In una fase avanzata della seconda guerra mondiale, eravamo "sfollati" in una località della valle del Mugnone detta "le Caldine". Alle spalle del paese c'era il greto candido del fiume - e certo c'è ancora; traversato quello, vengono pinete e oliveti su per le pendici dei colli percorsi da sentieri di cipressi. Un paesaggio proprio toscano, col verde e l'argento e le cupe creste del suo mare di foglie, spesso agitato dal vento.
L'appartamento - nuovo - in cui abitavamo, mancava di servizi - gas, elettricità, acqua - e si sopperiva con gran fatica e come si poteva. Per esempio avevamo una cosiddetta "cucina economica" che, mentre si cuocevano le vivande, scaldava gli ambienti come una stufa. Per alimentarne il fuoco, dovevamo pazientemente raccogliere il combustibile nei boschi circostanti. Per lo più procuravamo coccole di cipresso, che abbondavano sui sentieri perchè disprezzate dai molti, anche se costituiscono un combustibile di alto rendimento, ma certo meno nobile delle pine e molto più faticoso da raccogliere. Ci si metteva un bel po' a colmarne un sacco, che poi bastava per un paio di giorni. Aiutavamo tutti e di solito si andava in gruppo, per tenerci compagnia e sbrigarci prima.
In una occasione Fausto - che avrà avuto sei anni - invece di trattenersi a lavorare con gli altri sul sentiero preferì arrampicarsi su per il bosco "in cerca di pine" - come disse lui - o piuttosto perchè trovava monotono e stancante il nostro compito. Lo richiamavamo all'ordine continuamente ("vieni qui a aiutarci, tanto le pine le hanno già raccolte tutte, le avranno lasciate appunto per te, ecc."), ma egli faceva poco caso di noi, atteggiamento proprio seccante, tanto più che minacciava pioggia e volevamo affrettarci.
Il famoso sacco era quasi pieno e in cielo brontolavano i primi tuoni, quando finalmente tornò e, mostrandoci di lontano per tutto raccolto una sola pina - che a lui fanciullo potè sembrare enorme -, esclamò trionfante :"e così secondo voi non c'erano pine, lassù!" al che tutti scoppiammo in una fragorosa risata.
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La fortuna di questo aneddoto (in famiglia) si deve al suo significato letterale. Ci diverte l'ingenuità del bambino che cercò di giustificarsi per il suo pomeriggio d'ozio con una scusa insufficiente. Quindi si impara che un modo di farsi perdonare è muovere al riso (come in "Chichibio e la gru" di Messer Boccaccio). D'altronde è evidente che questo episodio risultò assai più divertente nel momento in cui avvenne di quanto non lo sia nella narrazione fattane tanti anni dopo. Ciò ci permette di riflettere sulla sua anatomia e di concludere che nessun pretesto così fragile varrebbe ad ottenere il perdono per un adulto.
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Tuttavia l'aneddoto si presta anche ad altre interpretazioni. Se si crede nella sincerità del protagonista, la sua ricerca solitaria è il simbolo dell'iniziativa contrapposta all'asfissiante ripetitiva attività gruppale del volgo che fraintende, rende oggetto di ridicolo il successo individuale ed è incapace di riconoscere la bellezza perfino quando gli viene additata con emozione.
Infine, come in molti ricordi, vi si rintraccia - con nostalgia - l'allegria di un tempo qualsiasi in cui la tempesta, la guerra, il freddo spariscono sullo sfondo, per lasciare di quel cielo, di quella vegetazione, di quegli esseri umani, solo il gesto di trionfo del bimbo. Di allegrie come questa inconsapevolmente si nutre la speranza nostra, giorno per giorno.
Buenos Aires, 20 febbraio 1982